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Per Aspera Ad Veritatem n.28
Sicurezza nazionale e questioni dell’immigrazione

Con interventi di Silvio D'AMICO, Anna Maria D'ASCENZO, Guerino DI TORA, Ornello VITALI


È noto come il fenomeno migratorio rivesta notevole complessità, per dimensioni ed impatto sociale. Nel più recente periodo, pur con il permanere di un’inquietudine di fondo, comune a molte società europee, sostanzialmente legata alla percezione di una minaccia alla sicurezza, alle opportunità di lavoro e all’identità culturale, si osserva un notevole cambiamento nell’approccio al problema dell’immigrazione.
Molti luoghi comuni hanno perso di peso e sembra diffuso tra i vari segmenti che compongono l’opinione pubblica e la società civile un confronto più maturo e consapevole con questioni quali regolarizzazione, lavoro, diritto di voto, contrasto dell’immigrazione illegale.
In effetti, tale cambiamento, pur se non aiutato dai mass media, che tendono a porre l’accento quasi esclusivamente sugli sbarchi o sui fatti di criminalità, è il risultato di un’ampia sinergia tra l’attività politico-legislativa, l’approfondimento culturale e l’adattamento della società ai nuovi modelli di convivenza. D’altro canto, stime recenti accreditano, nei prossimi vent’anni, un incremento costante dei flussi, che si inseriranno nella società in funzione complementare e non concorrente. Come è stato autorevolmente osservato, la dinamica migratoria costituisce il più importante e rapido fattore di mutamento della società contemporanea.
Quali sono le vostre valutazioni circa il cambiamento nell’approccio al problema dell’immigrazione, se a vostro avviso esiste, e quali i principali fattori che lo vanno determinando?


D’Ascenzo - Per poter esprimere valutazioni in ordine al modificarsi del rapporto tra società civile e problema dell’immigrazione bisogna indubbiamente far riferimento alla giusta considerazione – espressa nella domanda – che la dinamica migratoria può essere oggi considerata come uno dei più incisivi e veloci fattori di mutamento della nostra società. E per nostra, intendo dire, la società dei paesi sviluppati nati dalla grande industrializzazione del–’900.
Ma i fattori storici e sociali del mutamento (che sono a loro volta causa ed effetto della dinamica migratoria) ci devono rendere più cauti nel ritenere che le nostre società siano ormai pronte a un “dialogo” effettivo e soprattutto sereno nei confronti dei portatori di questa dinamica: gli immigrati.
Condivido infatti che sempre più frequentemente si rilevano modificazioni strutturali ed atteggiamenti individuali che potrebbero far pensare all’inizio di una fase di “accettazione” di tutto quello che i flussi migratori comportano e comporteranno nella evoluzione socio-economica e culturale della nostra società ma – di contro – non va sottovalutato che il crescere dei sostenitori dell’opportunità di favorire un reale dialogo con questa nuova realtà potrebbe provocare inevitabilmente una radicalizzazione di quelle fasce sociali che fanno della sensazione di insicurezza l’oggetto delle loro paure e quindi la causa delle loro diffidenze verso questo fenomeno e verso queste persone “nuove”.
Ed è per ciò che il compito di mediazione politica e di forte attenzione della società civile avrà un ruolo fondamentale nei prossimi anni affinché questa minoranza sappia anch’essa cogliere, in questo mutamento, tutti gli aspetti positivi che esso comunque apporta.
Nessun dialogo è, di norma, scevro da pericoli in quanto ha in sè il carattere del confronto, ma non dobbiamo dimenticare che il ruolo di società ospitante è comunque un ruolo di “preminenza”, se usato ovviamente con saggezza e lungimiranza e con quella connotazione di umanità che è propria delle società occidentali avanzate.
D’Amico - Va tuttavia riconosciuto che il cambiamento c’è stato. È iniziato nelle stesse istituzioni chiamate in prima persona ad affrontare l’inquietudine che deriva dall’immigrazione. Il Ministero dell’Interno, in particolare, che ha la responsabilità istituzionale per l’ordine pubblico e la sicurezza, già da diversi anni ha affiancato ad un rafforzamento delle azioni eminentemente repressive anche importanti iniziative di apertura ed integrazione nei confronti degli immigrati. Tra gli esempi il progetto di comunicazione condotto con la RAI (1), “CIVIS verso una società multirazziale”, o l’organizzazione, nell’ottobre del 2003, della “Conferenza dei Ministri dell’Interno dell’U.E. sul dialogo interconfessionale”.
Il cambiamento ha coinvolto chiaramente anche la società civile negli ultimi due anni, con una sensibile riduzione degli atteggiamenti di chiusura. Emblematici, al riguardo, alcuni dati.
Una prima analisi condotta dal CENSIS nel 2001 indicava nel 50,7% la percentuale di coloro che ritenevano l’immigrazione un fenomeno dannoso per l’impatto sull’ordine pubblico e sulla situazione occupazionale degli italiani.
Già nel 2002, da un’altra indagine condotta da Eurisko per “Repubblica”, emergeva che la percentuale di chi vedeva negli immigrati un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico si attestava al 35% degli intervistati, quella che li consideravano una minaccia per l’occupazione era il 28% e quella che intravedeva un pericolo per la nostra cultura ed identità circa il 20%.
Lo stesso dato del 35% di preoccupati per l’ordine pubblico e la sicurezza si rinviene nei dati forniti dalla Fondazione Nord-Est nel maggio 2003, che riporta, però, anche il dato del 47% di italiani che considerano l’immigrato una risorsa per l’economia.
La percentuale è appena al di sopra di una media europea del 33% (2), anche se si riscontra una tendenza evolutiva verso un sostanziale livellamento dei timori in ambito UE, con una riduzione degli indicatori per i paesi che già registravano timori più alti – come l’Italia – ed una crescita in quelli che avevano dati inferiori come Francia e Spagna.
Il dato italiano sembra ancora in miglioramento: da ultimo nel Rapporto CENSIS 2003 (3) il numero di coloro che si dichiarano molto o abbastanza preoccupati dell’immigrazione si attesta al solo 27% (molto preoccupati 9,1%, abbastanza 17,9%), mentre il 35,6% afferma di non avere alcuna paura dell’immigrazione.
Vitali - Concordo nel rilevare come negli ultimi anni si sia manifestato un sensibile cambiamento nell’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti del problema delle migrazioni.
Le migrazioni internazionali e la nascita dell’ethnoscape, quel panorama eterogeneo di turisti, professionisti, immigrati, gente di passaggio, rifugiati, lavoratori stranieri che caratterizza sempre più le nostre metropoli sono i segnali più tangibili della nascita di un’economia transnazionale e globalizzata, che scuote dalle fondamenta la nozione stessa di identità nazionale e culturale e mette in dubbio vecchie certezze sull’omogeneità culturale.
Ma perché le migrazioni sono diventate un problema politico ed economico? Poiché, contrariamente ai precedenti cicli di migrazioni, si ritiene da più parti che sia l’Europa occidentale a rappresentarne una delle mete principali, tanto che spesso ci si chiede se l’Europa non sia ‘sotto assedio’. Dal 1945 fino ai primi anni Novanta, la frazione più consistente dei flussi migratori a livello mondiale era rappresentata da rifugiati, di cui soltanto una piccola quota si dirigeva verso i paesi sviluppati. Tra il 1990 e il 2000 l’Onu ha stimato che il flusso di migrazioni verso i Paesi a sviluppo economico avanzato sia stato pari a 24 milioni di unità circa, a fronte di flussi migratori mondiali totali pari a circa 21 milioni di unità (non è un controsenso, e poi ne dirò il motivo). Quelli diretti verso il continente europeo, nello stesso periodo, sono stati pari a 8 milioni di unità, un aumento del 15,8%.
Da quanto detto appare evidente che quasi due terzi dei flussi migratori in Europa sono costituiti da migrazioni interne al continente europeo, come notava Wiener già oltre dieci anni fa, e più in generale si tratta di flussi interni ai paesi a sviluppo avanzato. Infatti da calcoli effettuati da Fertig e Schmidt soltanto il 19,6% degli immigrati in Germania è di nazionalità non europea. Tuttavia, nonostante il carattere ‘interno’ delle migrazioni europee, su tale circostanza gli esperti sorvolano, continuando a trascurare il fatto che i flussi migratori di cittadini europei sono attualmente di gran lunga superiori a quelli in senso contrario e la cui portata è tradizionalmente descritta come una vera e propria invasione.
Attualmente le popolazioni europee hanno una propensione alla mobilità territoriale molto superiore a quella delle nazioni economicamente meno sviluppate. Il processo di unificazione europea ha contribuito a innalzare tale mobilità a livelli fino a trent’anni fa impensabili. È per questo che le statistiche elaborate dalle Nazioni Unite dovrebbero, forse, depurare il dato sulle migrazioni verso l’Unione europea dalle migrazioni interne all’Unione, che rappresentano, tutto sommato, delle semplici variazioni di ‘residenza’ dei cittadini europei da uno stato all’altro dell’Unione.
Di Tora - In ogni caso, a mio avviso, non dobbiamo mai dimenticare che l’immigrazione costituisce per un paese l’ingresso di una realtà estranea.
Ciò forse era più evidente in passato, quando emigrarono anche gli italiani. Nel libro del giornalista Stella L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi troviamo una specie di prontuario delle cose che abbiamo dimenticato e che oggi rimproveriamo agli immigrati nel nostro paese, quasi che, quando si partiva noi, tutti stavano ad aspettarci ed erano subito pronti ad accoglierci. Eravamo poveri, parlavamo un’altra lingua, non eravamo culturalmente preparati, arrivavamo ammassati e penosi nelle nostre sembianze per cui le reazioni non erano tra le più favorevoli e non solo ci hanno trattato male e ci hanno discriminato ma sono arrivati ad ammazzarci. Comunque sia, a prezzo di molte sofferenze, ce la siamo cavata e gli italiani sono arrivati oggi ad un soddisfacente inserimento. In passato, quando il mondo era meno globalizzato, questo atteggiamento, pur non giustificabile (avevano tanto bisogno di noi quanto noi ne avevamo di loro), poteva essere comprensibile perché nel fondo del cuore umano esiste una predisposizione ambivalente nei confronti di ciò che è sconosciuto: di curiosità da una parte, di ripulsa e di paura dall’altra.
Oggi, in un mondo globalizzato e con i progressi dei mezzi di informazione e di comunicazione, perseverare con atteggiamenti pregiudiziali è, a mio avviso, fuori dalla storia. Non si tratta, tuttavia, di un’anomalia unicamente italiana. Possiamo parlare di movimenti e partiti xenofobi in Austria, in Francia, in Olanda, in Germania. Tuttavia nel nostro paese gli aspetti di gravità sono, a mio avviso, più acuti. Per rendersene conto basta esternare il nostro punto di vista e vedere come ci possano giudicare svizzeri, francesi, tedeschi, belgi e tanti altri sui quali noi nel passato abbiamo esercitato una forte pressione per favorire un’accoglienza dignitosa degli emigrati italiani. Vengono tollerate, anche a livelli presso i quali le reazioni non dovrebbero mancare, posizioni molto radicali su concetti come razza, cultura, religione, società, integrazione e così via. Il fatto che tali posizioni vengano poi sostenute anche a livello di partito costituisce un comodo alibi per coloro che appartengono ad una fascia di popolazione meno abbiente, o meno istruita o più anziana, che così si sente giustificata nei propri atteggiamenti di paura e di chiusura. Queste tendenze, a mio avviso troppo facilmente tollerate, costituiscono un ostacolo nel cammino che l’Italia è chiamata a percorrere per diventare una società interculturale, capace cioè di integrare vecchi e nuovi cittadini, anche se questi ultimi sono portatori di sensibilità culturali e religiose differenti, a prescindere dai tratti somatici che solo una ignoranza ancorata nel passato può considerare segno di un’altra razza o quanto meno di una dignità di livello inferiore.
La mia prima constatazione è: un atteggiamento psicologico ambivalente di fronte al diverso si trasforma in un atteggiamento politico sotto la pressione di gruppi organizzati e in particolare di determinati partiti politici. Questo può servire per guadagnare qualche voto ma è disastroso per l’Italia.
L’attuale approccio nei confronti del fenomeno migratorio è caratterizzato dalla coesistenza di valori di solidarietà e di atteggiamenti di convenienza, aspetti che peraltro possono benissimo convivere, in quanto non è escluso che l’apertura agli immigrati possa comportare anche vantaggi.
A mio avviso, sono portatrici di valori di solidarietà istituzioni come la Chiesa, le organizzazioni sindacali (che nei confronti dell’immigrazione hanno operato molto bene), l’associazionismo, il volontariato e il Terzo Settore. Non si tratta, quindi, di una parte residuale della società italiana, anche se non sempre adeguatamente rappresentata nelle decisioni del Governo e del Parlamento. In questo momento, esistono molte componenti della società italiana che si adoperano a favore degli immigrati, che li accolgono, che collaborano con loro al fine di favorirne un ruolo proprio e autonomo. È questo il vero collante che ha tenuto la società unita. Quando si dice “Italiani, brava gente”, un’affermazione che non ha un valore assoluto, si pensa a questa schiera di persone che ha mostrato sul campo che si può convivere, senza nascondere i problemi e senza ritenerli insolubili: è questa presa diretta con la realtà che ha smontato i sillogismi completamente negativi, peraltro articolati da persone che non conoscono l’immigrazione e con essa non si sporcano le mani e sono anche poco predisposti a leggere gli studi che si fanno in Italia e all’estero: le buone letture attenuerebbero comunque i toni del confronto, anche se a quel livello si finisce ancora per considerare “buonista” chi è solo ragionevolmente ottimista.
A favorire l’apertura all’immigrazione sono stati poi, sempre più decisamente negli ultimi tempi, gli esponenti del mondo imprenditoriale i quali apprezzano l’apporto fornito dai lavoratori immigrati. Se già attualmente un’assunzione su 9 riguarda un lavoratore immigrato, possiamo immaginare cosa avverrà tra 10, 20 o 30 anni: gli imprenditori hanno saputo prevedere le conseguenze di questa situazione. Non sono colpiti da quella che si potrebbe definire una “sindrome da romanza”, del “vorrei e non vorrei”: volere nuovi lavoratori in fabbrica ma non nuovi cittadini nella società.
Le forze sociali e le forze imprenditoriali sono una forte garanzia per gli immigrati, anche se non basta. Per questo bisogna insistere a livello di sensibilizzazione. La chiesa continua a farlo con impegno, attirandosi qualche reazione indispettita e spesso anche al di sopra delle righe: ma non fa niente, perché si lavora per il futuro e per radicare le ragioni di convivenza che consentiranno alla nostra società e all’Europa di vivere in pace e in prosperità.
D’Amico - Secondo me sarebbe importante capire anche se scelte recenti come la regolarizzazione o la proposta di estensione del diritto di voto siano state causa o effetto dell’attenuazione del senso di estraneità/rifiuto che accomunava molti cittadini. Personalmente, credo un po’ entrambe le cose. Sottolineerei inoltre le positive ricadute sulla pubblica opinione di un dibattito su provvedimenti normativi che disegnano l’immigrato come titolare di diritti sempre più simili a quelli del cittadino, contribuendo così a ridurne la percezione di estraneità/alterità.
Il fenomeno, come ricordavamo, ha dimensione europea: l’Europarlamento il 14 gennaio 2004 si è espresso a favore del diritto di voto nelle elezioni a favore degli immigrati che risiedono legalmente nell’Unione Europea. Anche la Commissione europea nella recente comunicazione su “immigrazione e integrazione” ha enunciato il concetto di “cittadinanza civile” dello straniero, ovvero uno status con diritti e doveri di natura economica, sociale e politica.
Molti passi avanti sono stati fatti rispetto al trattato di Maastricht (in vigore fino a 6 anni fa) in cui frontiere, asilo ed immigrazione erano oggetto di interesse solo sotto il profilo di polizia e giustizia.
In sintesi, come accennava anche Mons. Di Tora, l’atteggiamento di apertura delle istituzioni europee e nazionali può rappresentare sicuramente un momento di innesco e forte “volano” del cambiamento all’interno della società civile europea.
Ma, tra gli altri fattori cui ascrivere il nuovo clima, possiamo ipotizzare:
1. la forza dei numeri: gli stranieri sono ormai il 4,2% della popolazione italiana (con punte del 7% nel Lazio). Solo l’ultima regolarizzazione ha accresciuto dell’1,2% la popolazione del nostro Paese e del 3,5% l’occupazione. Si tratta di una marea incontenibile, contro la quale è sterile un approccio di mera chiusura e repressione;
2. l’abitudine alla convivenza: sul lavoro (gli extracomunitari sono il 10% degli occupati secondo l’INPS), a scuola (230.000 stranieri iscritti nell’anno scolastico 2002/2003), nello sport e nel tempo libero e finanche in casa (colf e badanti, ma anche matrimoni misti e adozioni), la convivenza con gli immigrati consente di apprezzare in concreto la reale ricchezza del loro apporto e il valore di una società multirazziale in cui superare i pregiudizi e la naturale diffidenza verso lo straniero;
3. il mutamento dell’immigrazione da individuale a familiare: cresce il numero delle donne (45% nel 2002 contro il 33% del 1992), dei minori (19,2% nel 2002 contro il 10.8% del 1992). Il 56 % degli immigrati regolari era sposato nel 2002 (contro il 40% nel 1992) e cresce il numero di permessi di soggiorno per ricongiungimento familiare (68.000 nel 2001) (4);
4. una legittimazione economica (e quindi anche sociale): sono 145.000 le imprese a titolarità di cittadini stranieri, pari al 4,1% delle imprese esistenti in Italia, che danno lavoro a 230.000 persone, di cui 30.000 cittadini italiani;
5. l’attenzione – normativa ed operativa – delle Regioni e degli Enti locali: negli ultimi 5 anni vi è stata una forte proliferazione sul territorio di politiche per l’integrazione sociale e la lotta alla discriminazione. Dieci regioni hanno già adottato legislazioni ad hoc, cui si affiancano iniziative in tema di mediazione culturale e di conflitti, altre in materia di tutela delle vittime (specie della violenza e dello sfruttamento sessuale) e della famiglia, così come azioni specifiche di sensibilizzazione e di educazione alla legalità;
6. una maggiore conoscenza dei drammi che sono alla base dei flussi (è il lato buono della globalizzazione);
7. la tradizionale apertura non solo della Chiesa, ma anche delle organizzazioni sociali e del volontariato, che hanno saputo fornire un insostituibile (e spesso oscuro (5) ) servizio in relazione alla gestione degli impatti più tragici dell’immigrazione. Su questo punto concordo pienamente con quanto affermava Mons. Di Tora;
8. una comune coscienza europea contro razzismo e xenofobia (già diffusasi in paesi con percentuali di immigrati maggiori del nostro) che sta filtrando attraverso le istituzioni, la scuola, ecc., specie nelle generazioni più giovani.
D’Ascenzo - Tuttavia vorrei richiamare la Vostra attenzione sul fatto che tutte queste considerazioni, direi sostanzialmente positive ed ottimistiche, non possono esulare da una stima dell’aspetto quantitativo dell’incremento del fenomeno migratorio perché è proprio questo incremento che può o potrà giocare un ruolo negativo nella valutazione o nella percezione di una funzione concorrente e non – come dovrebbe essere – complementare che l’immigrazione può svolgere nell’ambito delle nostre società.
Ad aspetti di analisi qualitativa non possiamo quindi non affiancare valutazioni di ordine quantitativo che si concretizzano nella cosiddetta capacità di assorbimento territoriale che è poi, più banalmente, capacità di graduale “ricezione” delle diversità, evitando che esse diventino fattore di mutamento troppo rapido e quindi non accettabile dalla comunità indigena.In questo contesto, tuttavia, nessun segnale di “insofferenza” va sottovalutato, nessuna paura sociale va derisa o sottostimata, nessuna radicalizzazione della salvaguardia dell’identità nazionale va analizzata come forma di potenziale razzismo. Le società complesse come la nostra, di fronte a stimoli esterni, hanno una comprensibile necessità di mediare i mutamenti, di capirli, di accettarli e farli propri.
La speranza è che questo ampliamento dell’approccio positivo da parte di sempre più allargati segmenti che compongono l’opinione pubblica e la società civile possa essere la base da cui partire per una lettura più consapevole e serena delle dinamiche migratorie.
D’altronde, gli squilibri socio-economici, culturali, demografici (e la lista potrebbe essere molto più lunga) che negli anni abbiamo costruito o che comunque non siamo riusciti a contenere nei confronti dei paesi sottosviluppati non possono oggi che farci riflettere su quella grande opportunità che ogni migrazione porta con sé, quella cioè di essere fenomeno di equilibrio in un mondo, speriamo, più vicino alle esigenze di tutti e quindi sostanzialmente più giusto.
D’Amico - Non dimentichiamo però che l’andamento ed il livello degli atteggiamenti di chiusura/timore, a mio avviso, non sono solo il frutto di fattori culturali, sui quali, come si diceva, si può incidere attraverso un’adeguata comunicazione, ma rappresentano anche un indicatore dell’efficacia delle politiche nell’affrontare il problema dell’integrazione, ovvero della capacità di operare sulle infrastrutture, materiali ed immateriali, dei paesi per assorbire i nuovi arrivati (case, scuole, assistenza, formazione, tempo libero, ecc.).
Una valida politica di integrazione rappresenta, infatti, sia un fattore di accrescimento della coesione sociale, sia un prerequisito di efficienza economica dei paesi di destinazione.
Considerato, però, il carattere fortemente dinamico ed imprevedibile, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, dei flussi di immigrazione e, quindi, la necessità di aggiornare continuamente la risposta nei tre livelli di governo, è fisiologico un tempo di ritardo nei meccanismi di integrazione.
Allora, se è lecito pronosticare che il progressivo impatto delle politiche di integrazione si tramuterà in un calo ulteriore di atteggiamenti di paura o rifiuto, è anche credibile che i disagi insiti in ogni evoluzione improvvisa dei fenomeni sul territorio comporteranno una sorta di incompressibilità di uno zoccolo duro di posizioni negative di chiusura.
Concludendo, nel rinnovato clima di apertura che va maturando, appare doveroso riconsiderare anche la concettualizzazione di quello che tutti continuiamo a chiamare il “problema dell’immigrazione”.
L’immigrazione in sé non è un problema, ma un fenomeno fisiologico che comporta sia grandi problemi che grandi opportunità, come dimostra l’esempio storico dell’immigrazione nord/sud del secondo dopoguerra.
Del resto, non è contraddittorio ritenere un problema sia l’immigrazione che la “fuga dei cervelli”?
È, invece, sicuramente un problema la componente clandestina dell’immigrazione, anche se la dimensione quantitativa che hanno assunto sanatorie e regolarizzazioni dovrebbe farci riflettere in ordine alle reali responsabilità, nel senso che l’arrivo in condizione di clandestinità ha rappresentato il presupposto per la soddisfazione di un’imponente offerta di lavoro.

L’Unione europea dispone ormai di una frontiera che corre dal Circolo Polare Artico al Mar Nero. Il c.d. allargamento, se da un lato segue i principi che hanno ispirato più di cinquant’anni fa i padri fondatori, dall’altro pone questioni di diversa natura. Una di queste è il contrasto al fenomeno dell’immigrazione illegale. L’ipotesi che il nuovo spazio comune faciliti i flussi migratori, in particolare da est a ovest, ha destato e continua a destare allarmismi da tutti i partners. Non va trascurato che l’allargamento appena realizzato non sarà l’ultimo. Per il 2007 è previsto l’ingresso di Bulgaria e Romania e resta sul tavolo la candidatura della Turchia.
Com’è noto, l’Unione europea ha definito attraverso l’Accordo di Schengen gli standard di sicurezza dei controlli alla propria frontiera esterna, la cui attuazione ha comportato problematiche diverse tra i diversi Paesi che hanno aderito all’Accordo. È chiaro che se si vuole contrastare efficacemente l’immigrazione clandestina si devono in primo luogo rendere più sicure le frontiere dell’Unione. L’Italia, per la sua posizione geografica tra le più esposte al fenomeno migratorio illegale, ha portato all’attenzione di tutti i partners la questione della gestione integrata delle frontiere, pur nella consapevolezza dei grandi sforzi finanziari che, specie i nuovi Paesi, saranno chiamati a sostenere.
Qual è la vostra opinione circa l’impatto dell’allargamento rispetto ai flussi migratori?


D’Amico - Esiste una diffusa opinione negativa sul rapporto tra allargamento e flussi migratori, perfino nei testi ufficiali dell’UE.
Si legge, infatti, nel Rapporto sulla criminalità organizzata nell’Unione Europea 2003 (6)“The EU enlargement will play a major role in the continued growth of illegal immigration in the future”.
Il pericolo sembra, pertanto, concreto, ma personalmente non sarei così categoricamente pessimista. Ho già espresso alcune opinioni al riguardo in un articolo, scritto a quattro mani con il Prof. Luca Celi, pubblicato su LIMES (7).
Una prima considerazione è che l’allargamento tramuterà in intraeuropeo (e pertanto coperto dalla libertà di circolazione) una parte apprezzabile dell’attuale afflusso extracomunitario. Questo comporta un vantaggio sicuro ed un rischio incerto.
Il vantaggio sicuro discende dal fatto che quell’immigrazione interna perde il carattere della clandestinità, e quindi, da un lato, quel flusso migratorio non può rappresentare più un target per la criminalità organizzata che oggi offre il servizio di introduzione illegale nell’UE e, dall’altro, l’uscita dalla situazione di clandestinità aumenta la tutela del migrante, mentre dovrebbe ridurne la propensione verso le attività “sommerse” o illecite, che per il clandestino rappresentano spesso gli unici spazi di azione disponibili.
Il rischio, invece, paventato da molti, è che l’abbattimento delle frontiere con i nuovi partner comporti un flusso inarrestabile di nuovi cittadini europei verso le aree più ricche. Il timore non sembra fondato su dati oggettivi: una previsione quantitativa del 2000 (8) ipotizza un afflusso all’interno dei Paesi “UE 15” pari a 335.000 persone nel primo anno, destinato poi a dimezzarsi nel corso del decennio. Ma vi sono anche stime più recenti della Commissione europea che parlano di un afflusso annuale molto più modesto (tra 70.000 e 150.000 unità).
Non vi è, tuttavia, chi non abbia già manifestato l’intenzione di limitare l’ingresso nel proprio mercato di cittadini dei nuovi Paesi dell’Unione. Germania ed Austria, ad esempio, sembrano orientati ad avvalersi del diritto di chiudere gli ingressi per il periodo massimo consentito di 7 anni, ma atteggiamenti di chiusura o limitazione dell’ingresso si registrano anche nei Paesi Bassi, in Danimarca, Belgio, Grecia, Finlandia, Svezia e persino in Portogallo.
Eppure l’esperienza storica dei precedenti allargamenti dell’Unione Europea verso Paesi con un PIL pro capite decisamente più basso della media europea (Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia, Finlandia) dimostra che questi non solo non hanno generato esodi di massa, ma hanno rappresentato occasioni straordinarie di crescita economica di quei paesi, non di rado con esiti di riduzione dei flussi emigratori, laddove non addirittura di inversione dei circuiti con il rientro in patria di chi in precedenza aveva lasciato il paese in cerca di fortuna.
Del resto le frontiere esterne di Schengen rappresentano una barriera non solo per i clandestini che vogliono entrare in Europa, ma anche per quelli che desiderano ritornare in patria per un certo periodo o definitivamente. In questo senso si può addirittura ipotizzare, subito dopo l’allargamento, un significativo flusso circolare di rientro in patria degli attuali immigrati già clandestini, che possono finalmente fruire dell’acquistato diritto a tornare in occidente a proprio piacimento.
Dare concretezza ad un tale processo circolare potrebbe rivelarsi una sfida particolarmente interessante anche per il nostro paese, soprattutto nella prospettiva del successivo, ulteriore allargamento, ove si consideri che la comunità (legale) rumena è oggi divenuta in Italia la prima per numero (240.000), superando quelle marocchina (227.000) ed albanese (224.000).
D’Ascenzo - Sarebbe forse più consono, a mio avviso, parlare di riorganizzazione dei meccanismi di tutela delle nostre frontiere, piuttosto che di vero e proprio impatto di questo ampliamento sulle dinamiche migratorie.
I movimenti migratori, infatti, intesi come fenomeno di spostamento di popolazioni alla ricerca di migliori condizioni di vita, non sono di per sé “contenibili” da frontiere che concettualmente rappresentano solo confini giuridici di territorialità.
L’allargamento dell’Unione europea ai nuovi dieci Paesi e poi alla Bulgaria, alla Romania e forse alla Turchia non determinerà, a mio avviso, modifiche sostanziali alle dinamiche migratorie ma solo mutamenti organizzativi dei flussi che saranno “costretti” a ricercare strade diverse o percorsi nuovi.
A questi mutamenti l’Unione Europea dovrà essere in grado di rispondere con efficacia.
Quello che sicuramente sarà utile fare (e in parte già si è iniziato sotto la recente Presidenza italiana dell’Unione) è massimizzare la capacità di interazione fra noi e i nuovi paesi aderenti affinché la gestione integrata delle frontiere sia una realtà che possa garantire maggiori risultati in materia di contrasto all’immigrazione illegale.
Si parla, infatti, di frontiere sempre come uno strumento di difesa passiva verso tentativi di “invasione” esterna. Dovremo cercare invece di riqualificare, in positivo, il loro ruolo: non più argine o muro di difesa ma discrimine giuridico fra legalità ed illegalità in nome di un “patto” che sappia equilibrare interesse e solidarietà.
L’arrivo di clandestini infatti non è da considerare solo un “accidente” che colpisce le nostre società ma anche un danno forte alle reali possibilità di questi immigrati di rendersi veramente utili allo sviluppo equilibrato delle società di accoglienza.
La clandestinità è, infatti, come notava anche il dott. D’Amico, fortemente penalizzante proprio nei confronti degli stessi stranieri che, oltre a foraggiare una criminalità organizzata sempre più forte e sempre più senza scrupoli, li pone in una condizione di “soggezione” (manodopera in nero, sfruttamento minorile, manovalanza per la microcriminalità, ecc.) verso le popolazioni indigene.
Alla debolezza propria di colui che è alla ricerca di migliori condizioni di vita si aggiunge dunque la debolezza della sua situazione di clandestinità (o di irregolarità), sommando disagio a disagio in un rapporto falsato con il Paese di accoglienza e non agevolando, di certo, quel processo di progressiva integrazione e di auspicabile reciproca accettazione.
Questa ulteriore considerazione, ancor più, mi fa ritenere che allargare o restringere frontiere non determina, di per sé, mutamenti delle dinamiche migratorie ma impone invece la ricerca di strumenti organizzativi migliori per tramutare i flussi di irregolarità in flussi di migrazione gestita e ordinata.
Vitali - Concordo pienamente sul fatto che uno dei primi effetti dell’allargamento all’Est sarà quello di legalizzare e liberalizzare – al di là di alcune norme transitorie, già siglate, sul contingentamento dei flussi per i primi sette anni dopo l’ingresso dei paesi dell’Europa orientale – gli ingressi che oggi sono invece considerati migrazioni clandestine. Un cittadino italiano che si trasferisce temporaneamente o definitivamente, poniamo, in Germania per motivi di lavoro non può essere considerato in nessun modo un immigrato clandestino. Quando si perfezionerà il c.d. allargamento a est tutti i flussi provenienti dai paesi in via di transizione dovranno essere considerati in prevalenza ‘legali’. La popolazione immigrata che nel 2002 ha soggiornato in Italia proviene per il 10,2 per cento da paesi dell’Unione europea, per il 32,3 per cento da altri paesi europei (in particolare paesi dell’Est) e per il restante 57,5 per cento dalle altre aree. Al primo gennaio 2003, tra i primi 20 gruppi di immigrati dopo la regolarizzazione, trovavamo la Romania al primo posto, l’Albania e l’Ucraina al terzo e al quarto posto, la Polonia al settimo. Quindi il primo effetto delle regolarizzazioni è stato quello di definire le posizioni dei cittadini di paesi che, tra qualche anno, aderiranno a pieno titolo all’Unione europea. Si tratta di un cambiamento epocale nella nostra percezione dello ‘straniero’.
Di Tora - Penso che l’allargamento dell’Europa e la creazione di un ampio spazio comune è un tema che ci dovrebbe stare molto a cuore, considerato che del primo mercato comune l’emigrazione italiana ha tanto beneficiato. Ma bisognerebbe parlarne con toni che siano più vicini alla mentalità della gente comune, anche se non mi pare che, in generale, sia visibile una strategia di questo tipo. Basti pensare a quel grande strumento di socializzazione che è la televisione, e in particolare i telegiornali. Mi pare che gli avvenimenti europei siano sempre mediati attraverso le posizioni dei partiti e attraverso le dichiarazioni dei loro rappresentanti. Anche coloro che riconoscono ai partiti un’utile funzione di raccordo politico e non assumono atteggiamenti negativi nei confronti dei loro esponenti, rimangono spesso perplessi in quanto sembra che gli eventi e le prospettive dell’Unione Europea si esauriscano nei commenti degli uomini di governo e degli schieramenti politici, con scarso spazio riservato alle posizioni di altre espressioni della società. Ritengo sarebbe importante garantire a queste maggiore spazio. Mi vergogno, ad esempio, che quando ci viene chiesto di segnalare qualche immigrato (tipicamente qualche immigrato di un paese dell’Est Europeo), vengono richieste quasi sempre le stesse caratteristiche: che si tratti, cioè, di un caso umano che colpisca l’opinione pubblica e che rifletta una storia un po’ atipica. Potrebbe trattarsi, invece, di una persona assolutamente normale, magari con due lauree e che conosce tre o quattro lingue e che potrebbe essere un ottimo commentatore politico. Ma questo non interessa molto. Ovvero, potrebbe trattarsi di un responsabile di associazione, e quindi di un testimone privilegiato in grado di esporre i problemi che deve affrontare un immigrato dell’est europeo, le difficoltà che incontra nell’inserirsi, i progetti che ha formulato e ciò che si aspetta dal processo di allargamento. Ma anche questi aspetti non interessano più di tanto.
Le stesse perplessità riguardano il versante italiano. Quando si parla dei problemi dello sviluppo come si possono dimenticare, ad esempio, le ONG? Quando si parla di allargamento, come si possono dimenticare le organizzazioni dei consumatori e delle imprese? In realtà, le imprese sono le organizzazioni che, essendo meglio strutturate, riescono ad emergere maggiormente e ciò credo sia un fatto positivo. Si potrebbe continuare con i sindacati, i rappresentanti delle famiglie, la scuola e così via.
Nel complesso, non si può dire che il processo di allargamento sia stato ben metabolizzato alla base, come evidenziano anche le interessanti indagini che il prof. Ilvo Diamanti ha coordinato per la Fondazione Nord Est, nelle quali tuttavia troviamo anche qualche sorpresa. Ad esempio, sembra che la popolazione italiana non fosse affatto contraria all’ultima regolarizzazione, che ha consentito di disporre di una collaboratrice domestica o di un’assistente per gli anziani senza incorrere in problemi.
D’Amico - Diverso è, invece, il discorso dell’impatto dell’allargamento sulla gestione della frontiera esterna e, quindi, sul contenimento del flusso che proviene da paesi che restano extracomunitari.
Finché i nuovi partner non entrano nell’area Schengen (e passeranno non pochi anni) nulla cambierà rispetto ad oggi: le frontiere esterne non si muovono; i nuovi membri dell’Europa a 25 continuano ad esserne fuori e a rappresentare mere aree di transito e di raccolta di coloro che, autonomamente o a mezzo di strutture criminali, intendono varcare illegalmente le frontiere dell’UE.
Quando, invece, si allargherà l’area Schengen, il confine esterno dell’Unione si sposterà, per insediarsi proprio sul limitare di aree “calde” (Balcani, Ucraina, Bielorussia ecc.) caratterizzate da apparati di sicurezza di ridotta efficienza ed affidabilità, dove i traffici illeciti – compreso quello dei migranti – rappresentano una componente importante dell’economia. Ne consegue che anche i livelli di collaborazione istituzionale attesi con i nuovi confinanti non potranno essere paragonabili a quelli offerti oggi dai partner dell’Europa Centro Orientale (anch’essi, del resto, non sempre particolarmente performanti nonostante la pressione loro imposta dalla procedura di preadesione).
È lì, subito oltre i confini del limes europeo, che con ogni probabilità andranno a concentrarsi le strutture logistiche delle centrali criminali impegnate nel traffico, le aree grigie di connivenza, i centri di raccolta di chi è in attesa di violare la “fortezza Europa”.
È plausibile ritenere che anche la rete criminale che oggi assicura il medesimo servizio nei paesi dell’Europa centro orientale, lungi dall’essere smantellata, costituirà, allora, un’interfaccia ideale intra moenia, per il “drenaggio” degli arrivi e lo smistamento delle vittime della “tratta”.
D’altro canto, ove si rifletta sul fatto che lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani non si manifestano nella loro illegalità fino al superamento della frontiera esterna, è abbastanza facile concordare che lo sforzo principale dell’Europa si deve concentrare nell’azione di prevenzione e intelligence nelle zone di partenza dei flussi e nel controllo fisico delle frontiere (e delle aree di deflusso interno), dal momento che sono assolutamente contingenti e sostituibili sia le rotte che i gruppi criminali che gestiscono le singole fasi o segmenti del viaggio.
Lo spostamento ad est del controllo delle frontiere (non solo terrestri, ma anche marittime ed aeree), in particolare, è il presupposto per l’allargamento della libertà di circolazione interna all’Unione e richiederà uno sforzo – tecnico ed economico – rilevante per il continuo adeguamento alle nuove sfide della criminalità e del terrorismo. La difesa della frontiera esterna, allora, o rappresenta un reale strumento di dissuasione, filtraggio e repressione, o costituisce una spesa inutile ed un incentivo alla riattivazione di barriere nazionali interne.
Vitali - Dobbiamo tener presente anche che, attualmente, la frontiera dell’Unione europea lascia fuori la Federazione russa che, oggi, è probabilmente l’unico baluardo contro le migrazioni illegali provenienti dall’Estremo oriente. Dobbiamo quindi ritenere che la maggior parte dei flussi migratori dall’Estremo oriente (Cina in testa) e dal continente africano premeranno sul versante europeo meridionale. Questo colloca l’Italia in una posizione estremamente delicata per quel che riguarda la vigilanza. Da un certo punto di vista, per motivi di sicurezza, sarebbe stato sensato, a mio avviso, coinvolgere tra i Paesi del c.d. allargamento ad est anche l’Albania, pur nella consapevolezza delle difficoltà economiche in cui versa quel Paese. Questo avrebbe consentito di allentare parzialmente i controlli sulla frontiera orientale e concentrare risorse umane e mezzi sulla frontiera sud, specialmente se fossero stati posti precisi obblighi in tal senso alle autorità albanesi, eventualmente estendendo e rafforzando la partnership tra forze dell’ordine italiane e albanesi. Senza coinvolgimento pieno dell’Albania allo spazio economico dell’Unione europea, ritengo estremamente implausibile un maggiore coinvolgimento delle forze di polizia albanesi.
D’Amico - Vorrei suggerire che, allo scopo di sostenere le economie nazionali e favorire indirettamente il controllo nazionale delle frontiere, un ruolo importante potrebbe essere assolto dai fondi strutturali europei, che già in Italia sono stati utilizzati per azioni di sicurezza e controllo delle frontiere, progettati in termini di funzionalità ai processi di sviluppo socio-economico.
Una chiara indicazione in tal senso emerge dalla Comunicazione della Commissione al Consiglio ed al Parlamento Europeo “building our common Future – policy challenger and budgetari means of Enlarged Union 2007-2013” del 10 febbraio 2004 (9), dove si indica la strada di una condivisione di responsabilità e carichi finanziari a livello dell’Unione, con specifico riferimento alla sicurezza delle frontiere esterne, anche grazie alla creazione dell’Agenzia europea di controllo delle frontiere, precursore di un corpo unitario di polizia di frontiera dotato di adeguati mezzi.
La positiva esperienza condotta con i fondi strutturali proprio dall’Italia nel basso Adriatico per il controllo delle linee di costa, dei nodi di accesso (porti, aeroporti, valichi) e degli assi di penetrazione viaria e ferroviaria dei flussi extracomunitari (10) , dimostra la validità di un modulo integrato che consente di sperimentare nuove tecnologie e progettualità, formare e specializzare le risorse umane della sicurezza, sensibilizzare e mobilitare la società civile verso le esigenze di integrazione e di prevenzione dei mercati illegali.
La creazione di analoghi programmi ed iniziative per i nuovi partner dell’Unione potrebbe consentire loro, non solo di accompagnare i processi di sviluppo con adeguate misure compensative contro le esternalità negative (infiltrazione criminale nelle imprese, nei lavori e negli appalti, insicurezza delle reti di comunicazione, crescita dei traffici illeciti, ecc.), ma anche di reperire le risorse, le progettualità e le tecnologie necessarie ad accelerare l’ingresso a pieno titolo nello spazio Schengen.
Una simile soluzione potrebbe, tra l’altro, consentire al nostro paese di fornire un’utile expertise con ritorni anche in termini di compatibilità dei moduli operativi e tecnologici.
Bisogna, però, avere il coraggio di riconoscere che il controllo delle frontiere è una condizione necessaria ma non sufficiente. L’esperienza della frontiera USA/Messico sembra insegnare che la blindatura dei confini produce costi elevati e tendenzialmente crescenti, rendimenti modesti in termini di contenimento dei flussi ed un peso crescente della criminalità organizzata (più è difficile l’ingresso, più è indispensabile e costoso il ricorso alle organizzazioni che offrono il passaggio).
Risultati più definitivi in termini di ottimizzazione dei flussi legali e di riduzione di quelli illegali si possono sperare solo con una collaterale azione di prevenzione che agisca sull’offerta di immigrazione illegale (disincentivando sul piano socio-economico i flussi in uscita da aree calde) e, soprattutto, sulla domanda (trasparenza circa le reali capacità di assorbimento dei mercati leciti e contenimento di quelli illeciti e sommersi).
Una governance che coinvolga la domanda di immigrazione, del resto, sembra dettata anche dalla forte crescita quantitativa prevista per i prossimi anni. Secondo la Commissione europea si prevede un assorbimento annuo dell’Europa a 25 di un milione e mezzo di persone, ma è stato ipotizzato che la forte riduzione della popolazione attiva (25-64 anni) tra il 2010 ed il 2025 comporterà già tra qualche anno l’esigenza di una trasfusione di forza lavoro attorno ai 2 milioni di immigrati all’anno (11).
Di Tora - A mio avviso, per quel che riguarda l’immigrazione illegale, la situazione è molto grave. Abbiamo potuto recuperare, con l’ultima regolarizzazione, una area sommersa costituita da 704.000 lavoratori stranieri, sebbene le disposizioni di legge fossero state già modificate e rese più restrittive. Traiamo da questa constatazione una conclusione: la regolamentazione dei flussi migratori non può essere per intero demandata all’azione di contrasto. Vorrei ricordare che la pressione migratoria, in generale, è tanto più alta quanto più i livelli di sviluppo sono differenziati. Come sappiamo, le popolazioni dell’Europa orientale hanno tenori di vita decisamente inferiori a quelli italiani. Aboliti i visti, dunque, si può venire in Italia con molta facilità, con poco tempo e relativamente poca spesa. La stessa popolazione italiana, in una situazione economica sempre più difficile, è disposta a cambiare lavoro pur di guadagnare anche pochi euro in più al mese. Per quale ragione, allora, chi potrebbe aumentare di 5 o 10 volte il proprio guadagno mensile non dovrebbe essere tentato dall’idea di farla finita con la difficile quadratura del bilancio in patria e venire in Italia, o in Germania, o in Austria? Non possiamo togliere la speranza dal cuore della gente ed è giusto che sia così anche perché, secondo la dottrina della Chiesa, la ricchezza del mondo ha una fondamentale destinazione universale.
Ma allora verremo sommersi da ondate incontrollabili di immigrati dall’Est? Questo scenario già venne delineato dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989. I paesi dell’Est sono stati i maggiori protagonisti dei flussi migratori degli anni ’90; però non c’è stata alcuna invasione, come, a mio avviso, non ci sarà neppure in futuro. E ciò non dipenderà tanto dal controllo delle frontiere, necessario ma non determinante. Moltissimi potrebbero, infatti, attraversare le frontiere legalmente. Non è questo il punto. Come affermava il dott. D’Amico, bisogna aiutare attraverso i fondi strutturali le economie di questi paesi a sostenere il confronto con un mercato allargato e ciò non è possibile farlo senza ricorrere alle sovvenzioni.
Poiché il livello di invecchiamento delle popolazioni dell’Est Europa non è molto dissimile da quello riguardante l’Europa dell’Ovest, non è che si debba svuotare un serbatoio inesauribile di persone. Parte di esse saranno interessate a venire nell’Unione, specialmente nei primi anni, e altri resteranno a casa loro se verranno sostenute l’agricoltura e altri settori produttivi. Questi flussi sono stati già quantificati dalla Commissione Europea e non pare che stiano al di là della nostra portata: tra l’altro si tratta di una manodopera sovente ben qualificata.
In conclusione, il problema del controllo delle frontiere resta, ma questo non riguarda tanto i flussi migratori provenienti dall’Est Europa quanto, a mio avviso, come accennava anche il prof. Vitali, gli Stati di quell’area geografica che si trovano a dover gestire flussi provenienti da altri paesi diretti nel proprio territorio, che costituisce un trampolino di lancio verso l’Occidente. Si tratta di un problema molto serio.

Volgendo l’attenzione al nostro Paese, è chiaro che l’attività politico-legislativa riveste grande importanza non solo per il governo generale del fenomeno, ma anche per incidere sul rapporto immigrazione legale/illegale. Una gestione flessibile delle quote di ingressi riservate ai diversi paesi, ad esempio, agevola senz’altro la collaborazione per il controllo delle frontiere. Il Ministro dell’Interno Pisanu ha in più occasioni rammentato le tre linee fondamentali seguite dall’Italia in questa materia: aiuto allo sviluppo dei Paesi d’origine e di transito dei principali flussi migratori; regolazione dei flussi legali attraverso accordi tra questi Paesi e quelli di destinazione dei migranti; gestione integrata dei confini terrestri, marittimi ed aerei europei e lotta senza quartiere alle organizzazioni criminali che sfruttano e lucrano spietatamente l’immigrazione clandestina. In tale contesto, sono stati tra l’altro sottoscritti, dal 1996 ad oggi, ventotto accordi di riammissione con i Paesi di provenienza dei clandestini. Inoltre, sono in via di realizzazione in sede europea, tra i molti progetti, specifici programmi per la gestione integrata delle frontiere.
Quale giudizio si può dare sull’efficacia di tali indirizzi e quali considerazioni ritenete di poter formulare per una migliore funzionalità del sistema, tenuto conto che diversi osservatori rilevano una obiettiva carenza di aggiornate analisi e stime del fenomeno migratorio?


Di Tora - L’équipe del “Dossier Statistico Immigrazione Caritas”, che è l’Agenzia di supporto del Ministero dell’Interno nell’ambito del European Migration Network promosso dalla Commissione Europea, ha compilato ultimamente una bibliografia aggiornata su quanto è stato prodotto negli ultimi anni su questa materia. È una lista che fa impressione e quindi si dispone di un consistente materiale al riguardo. Lo stesso si può dire dei dati: il nostro “Dossier” è stato addirittura citato come esempio in occasione di alcuni incontri all’estero o con delegazioni estere perché in nessun Stato membro esiste una raccolta così corposa di dati statistici. Il bilancio è meno soddisfacente, invece, quando si tratta di tradurre questi approfondimenti in decisioni.
Non mi soffermo neppure sulle stime del fenomeno migratorio di qui a venire, sulle quali autorevoli demografi e specialisti dell’immigrazione hanno già detto molto. Ricordo che secondo la stima dell’ISTAT a metà secolo la popolazione italiana diminuirà di 5 milioni, mentre secondo la stima del Dipartimento demografico dell’ONU la diminuzione sarà di 12 milioni. Comunque sia, gli italiani diminuiranno in misura consistente e in maniera consistente aumenteranno gli immigrati. Quello che ci potrà capitare è già avvenuto nella storia. Il nostro futuro potrà essere all’americana (incidenza degli immigrati del 10% sui residenti), all’australiana o alla canadese (incidenza del 15-17%) o alla svizzera (incidenza del 21%). Stati Uniti, Australia, Canada e Svizzera sono paesi moderni: ipotizzare un futuro migratorio simile a quello che questi paesi già sperimentano non credo sia poi un grande disastro. Il reale problema, a mio avviso, non è il numero degli immigrati ma la politica da condurre nei loro confronti: una piccola quantità di immigrati può anche essere gestita con una politica deficitaria, ma una consistente quantità richiede necessariamente una politica adeguata.
Il Ministro dell’Interno Pisanu, un esponente del partito del premier che ha avuto il coraggio di esporsi in maniera innovativa sul tema delle migrazioni , ha proposto tre pilastri: aiuto allo sviluppo, regolazione dei flussi legali attraverso accordi, gestione integrata dei confini.
Quanto ipotizzato sullo sviluppo ci rallegra molto, ma la proposta viene fatta in un periodo in cui tutti i paesi ricchi si stanno impegnando meno che in passato nell’aiuto allo sviluppo. Rispetto al passato alcune situazioni nel mondo sono migliorate, mentre altre no, e lo affermano anche i responsabili delle organizzazioni internazionali. Donare a chi ha più bisogno una percentuale pari allo 0,7% della ricchezza nazionale, secondo quanto concordato molto tempo fa a livello internazionale, resta una chimera. Le ONG così lodevolmente impegnate sul campo in tanti paesi esteri, e quindi termometro molto sensibile, non sono contente. La nostra strategia attuale per gli aiuti allo sviluppo non ha più quei difetti di “disinvoltura” che presentava in passato, ma rivela tuttavia altre carenze. Per quanto interessa il nostro specifico argomento, e cioè l’immigrazione, trovo assurdo, ad esempio, che un immigrato ben preparato che risieda nel nostro paese non possa essere utilizzato nei progetti di sviluppo riguardanti territori che conosce meglio di qualunque altro esperto. Di questo si parlò in un’apposita proposta nella passata legislatura, ma l’approvazione del provvedimento avvenne solo da parte di un ramo del Parlamento e poi terminò la legislatura. Tra i due milioni e mezzo di cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia indubbiamente vi sono tanti potenziali protagonisti per lo sviluppo dei loro paesi, verso i quali magari farebbero confluire anche i loro risparmi. Purtroppo sono condannati a restare protagonisti potenziali, non calati nella storia. Mi pare che ce n’è abbastanza per dichiararsi non soddisfatti.
Bisogna poi aggiungere che anche un investimento molto serio nei paesi a forte pressione migratoria ha tempi di incubazione molto lunghi: 10, 15, 20 anni e anche più. Lo sviluppo non si esporta ma si costruisce con pazienza in loco. Ho detto questo perché talvolta qualcuno crede che con un leggero aumento dell’aiuto allo sviluppo si possa porre fine ai flussi migratori. Queste posizioni sono infondate e velleitarie perché con l’immigrazione, e in misura più cospicua di quanto avviene adesso, siamo costretti a convivere dalla storia.
Vitali - Sicuramente il ministro Pisanu ha dato prova di pragmatismo e di flessibilità nella gestione del problema dell’immigrazione illegale, in questo supportato non soltanto dall’efficienza delle nostre forze dell’ordine, pur in presenza di mezzi e risorse umane limitate, ma anche dal nuovo dettato normativo che disciplina la materia (la legge Bossi-Fini). In generale, le linee-guida tracciate dal ministro risultano encomiabili. Va detto che si tratta di tre obiettivi il cui perseguimento presenta differenti livelli di difficoltà. Quanto al primo, relativo all’aiuto economico dell’Italia ai paesi origine dei flussi, su un piano strettamente teorico elevare gli standard di vita in quei Paesi può contribuire a diminuirne il differenziale rispetto al paese d’accoglienza, con ciò eliminando in parte l’incentivo alla migrazione. Naturalmente, come faceva notare Mons. Di Tora, si tratta di un’operazione lunga, costosa e delicata su un piano politico. Abbiamo già avuto alcune esperienze di aiuti ‘umanitari’ nei paesi del Corno d’Africa, con esiti disastrosi sia in termini di sicurezza interna in quei Paesi, sia – come diretta conseguenza – in termini di aumento del flusso di migrazioni verso l’Italia. Quindi ben vengano interventi e aiuti umanitari, purché siano finalizzati all’avvio di un reale processo di sviluppo economico. A tale scopo potrebbero rivelarsi preziosi gli interventi effettuati nel quadro di una più vasta concertazione internazionale, mobilitando a tale scopo anche la preziosa esperienza maturata in questi ultimi anni dagli industriali più attenti ai processi di globalizzazione.
D’Ascenzo - Siamo d’accordo. Rilettura e soprattutto riorganizzazione degli indirizzi di una vera cooperazione allo sviluppo verso i paesi di origine e di transito dei flussi migratori, rielaborazione e soprattutto maggiore attenzione nel rapporto con gli Stati dei paesi di immigrazione, gestione più efficace e soprattutto più coordinata dei confini dell’Unione europea (anche attraverso azioni sempre più forti contro le organizzazioni criminali), sono indubbiamente i tre elementi su cui è necessario fare perno per una ridefinizione complessiva delle politiche migratorie.
L’Europa, per suo sviluppo territoriale e per sua capacità ricettiva, non ha mai potuto e non potrà mai accogliere se non migrazioni “di nicchia” a differenza dei grandi movimenti di popolazioni che hanno raggiunto, nel secolo scorso, il Sud America, gli Stati Uniti di America e più recentemente il Canada e l’Australia, migrazioni che vengono definite “movimenti verso scatole vuote”.
Ed è per questo motivo che una reale politica, (auspicabilmente coordinata con tutti gli altri Stati dell’Unione) di cooperazione allo sviluppo potrà contenere quegli squilibri che sono alla base dello spostamento di queste popolazioni. Più accordi, dunque, con quegli Stati affinché la gestione delle “persone” sia anch’essa improntata ad un realismo della sostenibilità dei processi di accoglienza contro gli arrivi indiscriminati, contro i trafficanti e le organizzazioni criminali e contro la disperazione della clandestinità.
D’Amico - Vorrei sottolineare, tuttavia, che l’Italia presenta una delle frontiere esterne più estese e, quindi, più esposte dell’Unione Europa. Ne sostiene, pertanto, un significativo peso economico. Di conseguenza, ha sviluppato, nel corso del tempo, una complessa strategia che prevede, in parallelo:
1. l’inasprimento degli strumenti – operativi e normativi – di contrasto ai flussi e ai traffici illegali;
2. un’azione nazionale, sul piano bilaterale e regionale, improntata al “principio di condizionalità” (aiuti significativi per i paesi che collaborano), che ha già prodotto impatti visibili. In questo contesto si inseriscono non solo le scelte nella programmazione dei flussi di ingresso, ma anche operazioni di vasta portata, come l’institution building condotto in Albania, che ha scongiurato nuove “invasioni” di massa, ha sostanzialmente arrestato gli sbarchi ed ha assicurato la “tenuta” degli apparati locali di prevenzione e contrasto”;
3. una coerente posizione, a livello comunitario, a favore di una politica integrata di controllo delle frontiere esterne.
La trasposizione a livello europeo della strategia italiana nel suo complesso comporta, a mio avviso, indubbi vantaggi e ne rafforza l’efficacia.
Va considerato, infatti, che per 2/3 degli immigrati l’Italia è solo un paese di transito.
È evidente, inoltre, la maggiore “pressione” nei confronti dei paesi di origine e di transito dei flussi che si può assicurare con il peso – politico ed economico – dell’Unione e di tutti i partner. Si pensi ad esempio ad una politica di quote annuali di ingresso europee.
Allo stesso tempo la dimensione europea – strategica e finanziaria – consente di affidare, in breve tempo, la responsabilità delle frontiere esterne ai nuovi partner che non dispongono di sufficienti risorse economiche, tecnologiche, umane e di gestione.
In questa prospettiva di una governance europea sul problema dell’immigrazione illegale, possono essere letti molti degli esiti del Consiglio Europeo di Bruxelles del 12 dicembre 2004, a conclusione del semestre di presidenza italiana dell’UE, quali:
· l’accordo politico sulla proposta della Commissione di istituire un’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere comuni, destinata ad entrare in funzione dal 1° gennaio 2005;
· l’adozione del “Programma di misure per combattere l’immigrazione clandestina attraverso le frontiere marittime degli Stati membri dell’UE”;
· l’accoglimento di misure volte ad agevolare le procedure di controllo alle frontiere tra gli Stati membri e gli Stati aderenti, nonché quelle volte a sostenere questi ultimi nel processo di allargamento con l’acquis per quanto riguarda le frontiere esterne;
· la definizione dell’orientamento generale (in attesa del parere del Parlamento europeo) su due progetti di proposte sugli indicatori biometrici nei visti e nei permessi di soggiorno, nonché l’invito per una proposta di introduzione di indicatori biometrici nei passaporti;
· l’invito rivolto alla Commissione per una proposta di strumento finanziario inteso a sostenere un approccio comune in tema di rimpatrio;
· l’accordo interistituzionale (Parlamento – Consiglio) su un nuovo strumento finanziario relativo ai paesi terzi nel settore dell’asilo e della migrazione, nonché l’adozione di un meccanismo di monitoraggio e di valutazione dei paesi terzi nel settore della lotta all’immigrazione clandestina.
Di Tora - Passando al secondo pilastro proposto dal Ministro, nel quale si parla, molto opportunamente, di regolazione dei flussi, innanzitutto ritengo sia necessario mettersi d’accordo sul numero di lavoratori cui concedere l’ingresso. Bastano 20.000 lavoratori, o poco più, l’anno in aggiunta ai nuovi lavoratori? Gli studiosi del settore dicono di no. L’ultima regolarizzazione ha dimostrato che ne sarebbero serviti circa 200.000 l’anno. Tra l’altro si può fare il confronto con studi molto articolati, come quello di Unioncamere (sistema Excelsior), che indicano una pericolosa sottostima: in sostanza le quote così basse costituirebbero una preparazione graduale alla prossima regolarizzazione (tra tre o quattro anni?).
A mio avviso, non bisogna programmare solo le quote ma anche l’impatto di queste sui servizi. Ultimamente le Regioni hanno ricordato che l’assistenza sanitaria dei lavoratori regolarizzati costerà almeno 1 milione di euro, che non erano stati conteggiati nei bilanci. Nuova immigrazione significa affrontare problemi quali: casa, scuola, servizi sociali, e di tutto questo non si parla. A dire il vero, in questa fase, a livello ufficiale stanno sperimentando una fase di stallo anche i progetti riguardanti l’integrazione degli immigrati già stabilitisi in Italia. E non si tratta di segnali positivi.
La gestione delle quote legali va concordata con i paesi che hanno sottoscritto accordi con l’Italia: è una questione di buon senso, che tra l’altro ha accomunato il passato governo e quello presente e che dovrà continuare perché nessun paese sarà più interessato ad esercitare un controllo su nostro incarico se non in cambio di vantaggi.
Voglio aggiungere che nello scacchiere migratorio non ci sono solo i paesi che hanno sottoscritto con l’Italia accordi di riammissione. Ad esempio, il gruppo filippino, un gruppo “storico” per la sua anzianità di presenza, sta conoscendo flussi molto rarefatti, pur avendone bisogno e pur avendo dato buona prova di sé, come la generalità delle famiglie italiane sarebbe disposta ad affermare. È giusto che nel nostro sistema di programmazione non vengano riservate delle quote anche ai filippini? Io ne dubito. In passato, a questo inconveniente si poteva rimediare attraverso l’arrivo sotto prestazione di garanzia (sponsorizzazione), che però è stata soppressa, ad avviso del mondo sociale commettendo un grave errore.
I meccanismi di programmazione delle quote devono essere funzionali sia per quanto riguarda i contatti tra paese di accoglienza e paese di origine che per quanto riguarda il datore di lavoro e il lavoratore. La chiamata nominativa dall’estero non risolve tutti i casi. Le piccole aziende artigiane per i loro dipendenti, così come le famiglie per le collaboratrici e le assistenti familiari, vogliono conoscere anticipatamente le persone da inserire nella propria realtà, nella quale contano anche i rapporti umani e la reciproca adattabilità. Se non si trova una soluzione analoga a quella praticata con la sponsorizzazione, è inevitabile che si ricrei una vasta area di irregolarità. Il Parlamento europeo ha consigliato alla Commissione di introdurre la possibilità di un permesso di 6 mesi per cercare un posto di lavoro. È una soluzione meno brillante rispetto a quelle già sperimentate in Italia ma va nella giusta direzione. Purtroppo la posizione del Parlamento non è stata adeguatamente considerata nei dibattiti sui possibili miglioramenti da apportare alla politica migratoria, ma speriamo che questo possa avvenire tra breve.
Il terzo pilastro proposto dal Ministro riguarda il controllo delle frontiere e, a mio avviso, è sacrosanto. Non deve trattarsi di un controllo “a cannonate”, ma comunque di un controllo vigile, fermo e umano, sapendo che molte delle persone da respingere sono “poveri cristi” alla ricerca di un futuro migliore e che tra di loro vi sono anche richiedenti asilo che bisogna individuare e accogliere. Questo lavoro sarà tanto più serio quanto meno clamore farà e sappiamo tutti che il Ministero dell’interno è seriamente impegnato su questo versante, anche a livello comunitario, soprattutto per contrastare le organizzazioni di trafficanti di manodopera.
Vitali - A mio avviso, la sottoscrizione di accordi bilaterali di riammissione con i paesi origine dei flussi stessi costituisce un’operazione praticabile sul piano concreto. Ciò infatti consentirebbe di collocare un ‘filtro’ già nel Paese di partenza, tenuto anche conto che la sigla di un accordo di natura vincolante relativo ai cittadini di quel paese è estesa di fatto a tutti i clandestini che vi transitano come tappa intermedia e costituisce quindi un forte incentivo ad aumentare i controlli alle frontiere. Il recente accordo bilaterale con la Libia, ad esempio, ha senz’altro contribuito alla riduzione del flusso di immigrati clandestini in partenza dai porti libici. È una strada che dimostra di funzionare bene, purché siano esplicitate chiaramente nel testo dell’accordo le sanzioni in caso di negligenza nel controllo delle frontiere da parte del paese origine dei flussi. Quanto invece alla gestione integrata delle frontiere terrestri, aeree e marittime, un grande aiuto potrà provenire in futuro anche dal potenziamento delle moderne tecniche di controllo satellitare. È abbastanza singolare che, per finalità di ricerca scientifica, l’Agenzia spaziale europea finanzi una missione dall’esito quasi fallimentare a 140 milioni di chilometri dalla Terra e non abbia ancora inserito in agenda il lancio di un satellite per il controllo integrato delle frontiere, che è nell’interesse di tutti i paesi aderenti al Patto di Schengen e, più in generale, dell’Unione europea. In generale appare ovvio che, nel processo di migrazione, si assista talora ad un processo di selezione avversa, in base al quale soltanto il migrante che intende compiere azioni criminose nel paese ospitante ha convenienza economica a finanziare un viaggio spesso molto costoso. Il problema è delicato e non può essere affrontato in questa sede con la dovuta attenzione. Mi limiterò a dire che sull’argomento le generalizzazioni sono fuorvianti. Posto che l’immigrazione ‘regolare’ dovrà essere disciplinata da un sistema di accordi bilaterali, che fissino con chiarezza le quote annuali di ingressi, il carattere umanitario per il quale si concederà accoglienza a tutti gli altri migranti dovrà essere sempre valutato caso per caso, in maniera ancora più rigorosa.
D’Ascenzo - Ritengo comunque importante sottolineare che a questi tre pilastri, di cui abbiamo diffusamente parlato e che sono indubbiamente alla base di una politica lungimirante nei confronti dei processi migratori – e che, aggiungo, di recente il Ministro Pisanu ha portato all’attenzione della competente Commissione parlamentare in seno al Parlamento europeo – va aggiunto un quarto pilastro: quello di una promozione culturale che sappia veramente impostare un lavoro di lungo termine per favorire le dinamiche dell’integrazione.
Alle intese fra gli Stati bisogna far seguire, infatti, le intese fra gli “uomini” non solo per quel malcelato altruismo che qualche volta si rinviene negli atteggiamenti dei “ricchi” nei confronti dei “poveri”, di cui ci parlava con tanta passione Mons. Di Tora, ma anche in una visione sanamente e saggiamente “egoistica” che sappia leggere nel percorso di cittadinanza la vera soluzione del rispetto delle identità diverse in una società che, per sua stessa natura, deve fare di tali diversità un obiettivo finalizzato al miglioramento del vivere civile.
D’Amico - Se posso azzardare, in conclusione, qualche profilo propositivo circa l’evoluzione della strategia, penso che potrebbe essere maggiormente rafforzata l’integrazione tra l’azione degli organi investigativi e di sicurezza e gli altri interventi preventivi – di natura economica e commerciale – funzionali ad un contenimento dei flussi di immigrazione clandestina ed incentivanti una immigrazione regolare e professionalmente utile, favorendo l’incrocio della domanda con l’offerta di lavoro extracomunitario.
Facendo un esempio concreto, si potrebbero convogliare risorse verso una formazione mirata (linguistica e tecnica) nei paesi di origine dei flussi, tesa a favorire una più rapida ed utile integrazione lavorativa dei migranti, sia in Italia, sia in loco nelle aree decentrate dai distretti industriali italiani, sia anche con il lavoro a distanza (sul modello Gran Bretagna/India).
Ma, allo stesso tempo, è indispensabile operare sul piano interno per ridurre le aree di economia sommersa (nell’industria, in agricoltura, nei servizi e nel lavoro domestico) che rappresentano la grande attrazione per i clandestini.
In conclusione, quindi, una governance, nazionale e/o europea, del fenomeno immigrazione deve integrare l’approccio repressivo al problema (che può, nella migliore delle ipotesi, ottenere solo uno spostamento delle rotte e degli approdi), in un quadro complessivo di iniziative di sviluppo socio- economico che si sforzino di ancorare la popolazione attiva ai territori (di origine e/o di destinazione), sviluppando anche una forte azione interna per l’emersione e la legalità e la trasparenza.
Questo significa, a livello nazionale, operare allo stesso tempo per:
- contrastare le minacce alla sicurezza e al sistema economico che promanano dallo sfruttamento dell’immigrazione e degli immigrati (riciclaggio, connessione con altri traffici illegali transnazionali, arricchimento della criminalità organizzata, infiltrazione criminale nelle imprese e negli appalti, terrorismo, alimentazione della criminalità diffusa);
- ridurre l’economia sommersa (lavoro nero, evasione fiscale e contributiva, pirateria informatica e audiovisiva, contraffazione di marchi, lavoro minorile, ecc.) e tutelare le imprese oneste dalla concorrenza del sommerso;
- valorizzare appieno le risorse, effettive e potenziali, che l’immigrazione offre;
- impegnarsi contro la marginalità, l’esclusione sociale e la discriminazione per mantenere standard elevati di coesione sociale, in una società interculturale in continuo mutamento.
In questo senso, anche l’azione di intelligence potrebbe acquisire nuove competenze che coprano meglio l’intera gamma degli obiettivi.
Allo stesso modo, va ricercata una più forte integrazione tra compiti e responsabilità di sicurezza esterna (difesa avanzata dei confini e lotta al terrorismo internazionale), sicurezza interna (pubblica sicurezza e controllo delle frontiere), polizia economica per la trasparenza e la sicurezza delle attività economiche e dei mercati (capitali, lavoro, servizi, appalti, ecc) e polizia locale a livello micro.
Sempre sul piano propositivo, seguendo modelli già sperimentati nel nord Europa e negli USA, potrebbe rivelarsi utile riservare ai naturalizzati ed agli immigrati che soggiornano legalmente nel nostro Paese funzioni, oltre che di mediazione interculturale, anche di collaborazione organica e visibile con gli apparati di polizia e di sicurezza. Ciò sia per disporre di una stabile conoscenza “dall’interno” di talune realtà culturali altrimenti impenetrabili, sia per ridurre nelle comunità immigrate la sensazione di alterità/contrapposizione rispetto al sistema pubblico di prevenzione.

L’approvazione della legge n. 189/2002 ha creato diffuse aspettative circa la possibilità di un efficace governo delle dinamiche relative al fenomeno migratorio.
Le cifre fornite dagli studi più recenti, come ad esempio il dossier statistico sull’immigrazione pubblicato annualmente dalla Caritas italiana-Migrantes (2003) confermano che il rapporto immigrazione/criminalità continua ad esistere, sebbene in calo rispetto agli anni passati.
Il problema, a ben vedere, riveste notevole complessità. Se da un lato esiste la questione, criminale e sociale, degli immigrati, regolari e non, che commettono reati, dall’altro si è andata affermando una criminalità organizzata spietata che sfrutta l’immigrazione clandestina. Inoltre, sotto il profilo della sicurezza nazionale, l’escalation terroristica che ha seguito i fatti dell’undici settembre fino ai recenti attentati di Madrid hanno alzato la soglia dell’allarme circa la possibilità che il terrorismo utilizzi i canali dell’immigrazione per colpire i propri obiettivi, richiamando le strutture di polizia e di intelligence a un forte impegno di cooperazione internazionale e di scambio informativo.
Quali sono le vostre considerazioni sul rapporto immigrazione/criminalità?


Vitali - Mi sono già espresso su questa Rivista (12) sulla rilevanza della legge 189/2002, sia per quanto riguarda l’impianto complessivo, sia per quel che concerne la differenza di impostazione rispetto alle precedenti soluzioni legislative, soprattutto sul delicato terreno del collegamento tra accoglienza e integrazione nel tessuto economico del nostro Paese. L’undici settembre traccia uno spartiacque tra un’era di relativa immunità degli Stati Uniti da minacce di matrice fondamentalista e la presa di coscienza che, nel Ventunesimo secolo, nessun paese può considerarsi al riparo da attacchi terroristici. Ad un’analisi superficiale sembrerebbe una frattura nella rappresentazione dello ‘straniero’ che coinvolge principalmente gli Stati Uniti. L’Italia, per motivi storici, culturali ed economici si trova al crocevia tra Occidente e Oriente da oltre tre millenni e, nello scontro tra civilizzazione cristiana e Islam, si è trovata sempre in prima linea. È un problema di convivenza che ha dato importanti risultati nel dodicesimo-tredicesimo secolo e si è definitivamente stabilizzato nell’ultimo secolo, influenzando in maniera rilevante molte delle scelte di politica estera compiute fino alla fine degli anni Ottanta. L’emergere del fondamentalismo ha costretto l’Italia ha rivedere molte delle scelte consolidatesi nei decenni precedenti, nella consapevolezza di non essere più in presenza di un soggetto politico con il quale instaurare un dialogo costruttivo. Molte delle scelte dei movimenti fondamentalisti stanno incidendo profondamente sulla rappresentazione tout court della migrazione araba in Italia che, fino alla fine degli anni Ottanta, era generalmente ben tollerata. Quanto ai dati della Caritas, presentati nel Rapporto 2003, rileviamo in primo luogo che si riferiscono alla situazione al 31 dicembre 2001, quindi in realtà non conosciamo nulla sull’evoluzione del fenomeno negli oltre due anni trascorsi da quella data. Inoltre tra le prime cinque nazionalità di denunciati stranieri, spicca la presenza del Marocco e della Tunisia, rispettivamente al primo e la quarto posto, mentre la fattispecie più ricorrente è, in accordo con la percezione comune, proprio la produzione e lo spaccio di stupefacenti. D’altro canto, come si osservava in precedenza, non si può cedere alla tentazione di facili generalizzazioni. Per motivi esattamente speculari, infatti, tra le prime venti nazionalità di immigrati che hanno regolarizzato la loro posizione al primo gennaio 2003, il Marocco figura al secondo posto, la Tunisia all’ottavo. Segno che il coinvolgimento degli immigrati dai Paesi nordafricani nel tessuto economico italiano è in via di consolidamento. Sulla scorta dell’esperienza di altri paesi mèta di consistenti flussi migratori, l’integrazione nel tessuto economico del paese di destinazione ha rappresentato la principale determinante della contrazione dei tassi di criminalità negli immigrati. Ci si deve ragionevolmente attendere, quindi, che un analogo processo di integrazione anche nel nostro Paese potrebbe nel prossimo futuro contribuire a contrastare efficacemente il fenomeno della criminalità tra gli immigrati, non soltanto quelli nordafricani.
Di Tora - Devo premettere per onestà, e per rimanere in coerenza con alcune considerazioni in precedenza espresse, che la legge 189/2002 ha creato una diffusa area di malcontento in quanto la filosofia espressa da diverse disposizioni è quella della precarizzazione del migrante, e questo non è un bene. Penso, ad esempio, alla riduzione del periodo di disoccupazione e all’inasprimento del requisito per la concessione della carta di soggiorno. Tuttavia, questo discorso ci porterebbe lontano. Mi pare si possa oggi dire che l’eccessiva enfatizzazione delle misure coercitive è stata temperata da una visione più globale e più realistica e non a caso in questo clima è stato possibile riparlare – anche se non con tutti i partiti – dell’attribuzione agli immigrati del diritto di voto alle elezioni amministrative, sbocco indispensabile se non si vuole lasciare perennemente al margine della società una quota così consistente di popolazione.
Soffermiamoci, invece, sul rapporto immigrazione/criminalità. Gli studiosi del “Dossier Statistico Immigrazione” sono molto lontani da quegli studi che vogliono dimostrare che sotto il governo di un certo orientamento politico gli immigrati sono meno criminali rispetto a quando al governo c’erano gli avversari, oppure studi – e questi sono più numerosi – che vogliono spiegare di quanto e perché gli immigrati abbiano un tasso di delinquenza più elevato rispetto agli italiani.
Questi studi non portano molto lontano e si basano su conclusioni, a mio avviso, contestabili. Innanzi tutto i dati non sono così perfezionati da consentire paragoni tanto particolareggiati. Questa è l’occasione propizia per ricordare che i dati sulla criminalità, proprio per la loro sensibilità, dovrebbero essere raccolti con maggiore precisione e messi a disposizione con maggiore tempestività e disaggregazioni più adeguate. Nella premessa alla domanda è stato sottolineato che dopo gli atti terroristici dell’11 settembre 2001 le popolazioni sono più reattive all’argomento e questo è un argomento in più per attrezzarsi meglio a livello statistico.
Voglio spendere una parola in più sul confronto tra italiani e immigrati. È raro che i confronti vengano fatti utilizzando parametri simili: quando questo criterio non viene rispettato, le conclusioni valgono poco. Ad esempio, può essere importante tener conto del fatto che tra gli immigrati la fascia di età più avanzata, quella che delinque di meno, è quasi inesistente; che la percentuale dei coniugati è più bassa e che tra i coniugati solo un terzo vive con i propri figli; che le condizioni abitative sono precarie e così anche le condizioni di lavoro; che i contatti con le popolazioni locali non sempre sono facili e spesso sono caratterizzati da atti di discriminazione; che gli immigrati hanno scarsi mezzi per utilizzare gli strumenti di difesa previsti dal nostro ordinamento giudiziario e così via.
Un confronto serio dovrebbe tenere conto di queste varie componenti. Inoltre, quando si lavora con indagini a campione, prima di dire che il campione è rappresentativo bisogna considerare se le nazioni incluse rappresentano fedelmente la composizione nazionale della popolazione immigrata, cosa difficilissima da realizzare.
Per questi motivi, ritengo preferibile descrivere la devianza tra gli immigrati senza ricorrere a confronti poco calzanti e trarne degli insegnamenti. È molto importante, ad esempio, osservare, come spesso viene ripetuto nelle inaugurazioni degli anni giudiziari, che le denunce degli immigrati riguardano in prevalenza reati minori, che gli immigrati sono scarsamente implicati in reati connessi alla criminalità organizzata, mentre in casi molto più frequenti sono accusati di violazioni della normativa sugli stranieri. Aggiungerei, inoltre, che gli immigrati regolari presentano lo stesso tasso di devianza dei cittadini italiani (anzi leggermente più basso) e che gli immigrati irregolari denunciati appartengono nella stragrande maggioranza dei casi a 7-8 nazioni. A mio avviso, non esiste in generale il problema della devianza degli immigrati nei termini in cui spesso viene presentato.
Molto più serio è, invece, il problema del ruolo della criminalità organizzata nel traffico dei lavoratori immigrati, che diventano tramite per il traffico di droga, di armi e per altri reati. Il problema, allora, è diverso e si sposta dall’immigrato singolo (lo sfruttato) alle cosche che lo sfruttano in vari paesi di emigrazione e che sono collegate anche ad organizzazioni malavitose italiane.
Siamo convinti che meno clamore, tanta intelligence, numerosi accordi con i paesi interessati e il ricorso ad una cornice comunitaria possano portare a risultati quanto mai fruttuosi, sconfiggendo aree di delittuosa complicità che, sulla base di quanto emerge dai processi in corso, sembra si annidino in ambiti della pubblica amministrazione, all’estero e in parte anche in Italia. La lotta contro la criminalità passa, quindi, anche al nostro interno.
Vitali - Vorrei tuttavia sottolineare un aspetto. Non dobbiamo dimenticare che tutti i processi di migrazione sono prevalentemente processi di migrazione culturale, nel senso che il migrante reca con sé non soltanto uno stock di capitale umano accumulato nel paese d’origine, ma anche – e soprattutto – un processo di trasferimento di tratti culturali, tra i quali, a mio avviso, anche la propensione a compiere atti criminosi. Tale propensione risulta accentuata quando nel paese d’accoglienza esistono già, come rilevavano sociologi e criminologi in alcune analisi sulla nascita della mafia italo-americana, reti consolidate di solidarietà tra appartenenti alla stessa comunità etnica, in quanto in nuce tali reti rappresentano un eccellente brodo di coltura per la nascita di una criminalità organizzata a matrice etnica. Vero è che recentemente si assiste a fenomeni di ‘specializzazione produttiva’, con alcune organizzazioni criminose che hanno consolidato le attività di sfruttamento dell’immigrazione clandestina.
Si tratta sicuramente delle etnie che sono maggiormente coinvolte in attività di produzione ‘sommerse’. È un fenomeno preoccupante che va contrastato con decisione, anche perché le attività produttive che si avvalgono di manodopera non regolare entrano in concorrenza con le imprese che operano nella legalità.
D’Amico - Non dimentichiamo che lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina rappresenta comunque per la criminalità organizzata una tipica high-profit low-risk activity considerato che non necessita di speciali equipaggiamenti e di una stabile rete di distribuzione e che la “merce” partecipa attivamente alla riuscita del traffico e può essere veicolo di altri traffici (droga, armi, documenti falsi, soldi sporchi, ecc..).
E, del resto, molto diffusa è l’opinione espressa dall’equazione immigrazione = crescita della criminalità.
Il Ministero dell’Interno, nella relazione annuale 2003 sul fenomeno della criminalità organizzata, attesta che l’immigrazione “costituisce un ampio serbatoio per le bande di stranieri attivi nella commissione di reati di criminalità diffusa”.
Nel 37° Rapporto annuale del CENSIS si legge che crede all’equazione il 74% degli italiani, con punte del 79,7% nei grandi comuni e del 78% nell’area geografica del nord – est.
A suffragio di tale tesi è facile portare il costante aumento delle denunce (190.000 nel 2002, dato che sfiora il 30% del totale nazionale) e delle condanne a carico di extracomunitari e, soprattutto, la popolazione carceraria extracomunitaria che sfiora anch’essa il 30% del totale (al 30/6/2003), mentre i minori stranieri detenuti sono pari addirittura al 49,2% del totale.
Con questi indici sembra facile sostenere la tesi di una maggiore propensione alla delittuosità da parte degli stranieri. Occorre, tuttavia, considerare alcune circostanze che sembrano sfatare, come sosteneva Mons. Di Tora, affermazioni apodittiche e semplicistiche.
Ove si consideri che il 78,3% degli extracomunitari denunciati era in condizione di clandestinità e si limiti l’esame alla quota dei soli stranieri regolari, si scopre che il dato si riduce al 6,3% del totale, percentuale non lontanissima rispetto al 4,2% della popolazione extracomunitaria del nostro paese.Va, però, considerato che gli stranieri hanno un sistema di tutela inferiore a quello degli italiani e una minore capacità (linguistica, economica e culturale) di difendersi. La più ridotta disponibilità di un quadro di riferimento (casa, famiglia, lavoro regolare) incide del resto in maniera negativa su meccanismi di ingresso nel circuito carcerario (come l’arresto facoltativo o il fermo) e di uscita (misure alternative alla detenzione, lavoro all’esterno, ecc…).


Fonte: per delittuosità, ISTAT - Ministero Interno; per immigrazione estrapolazine da dati Caritas.


Sembra, quindi, essere lo stato di clandestinità, piuttosto che l’origine etnica, alla base di diffusi comportamenti devianti, già posti a motivazione del ritenuto connubio immigrazione/criminalità.
Ma pur volendo considerare tutta la delittuosità riconducibile agli stranieri nel suo complesso, si giunge a conclusioni controverse, dal momento che negli ultimi dieci anni il numero degli straneri è triplicato mentre il livello della delittuosità è diminuito, come mostra questo grafico che ne traccia l’andamento rispetto al 1991.
Negli stessi anni, mentre la componente straniera cresceva, la sensazione di insicurezza connessa al rischio di criminalità diminuiva, come ci dimostrano i dati contenuti in questa tabella:



Fonte: ISTAT, Famiglia, abitazioni e sicurezza dei cittadini (indagine Multiscopo sulle famiglie), 2003.


Concordo quindi con quanto sosteneva Mons. Di Tora circa il fatto che gli stranieri non rappresentano un reale rischio aggiuntivo. Credo che questi siano andati ad occupare (ancora una volta) nicchie delinquenziali dismesse o subappaltate dalla criminalità autoctona, impegnata a raggiungere gli stadi successivi di un modello evolutivo che possiamo semplicisticamente ricondurre a tre tappe:
1. reati patrimoniali, strumentali all’acquisizione di una disponibilità finanziaria;
2. investimento di tali profitti nei traffici illeciti (droga, esseri umani, armi, rifiuti, autoveicoli, materiali contraffatti, ecc.). La scelta dell’attività orientata, all’inizio, alla ricerca del massimo rendimento, tende poi ad escludere le attività a più alto rischio, che vengono cedute a nuovi soggetti criminali stranieri, mentre l’organizzazione autoctona passa dalla conduzione diretta del traffico alla gestione complessiva della rete logistica e alla intermediazione nei rapporti tra i fornitori, i subappaltanti e i destinatari finali di beni servizi illeciti;
3. reinvestimento e riciclaggio, in cui il denaro che esubera dalla necessità di gestione dell’alimentazione dei traffici viene riciclato o reinvestito in settori formalmente leciti.
L’assenza nel panorama criminale italiano di significative contrapposizioni violente tra criminalità autoctona e straniera, a fronte, anzi, di una crescente integrazione sul territorio tra gruppi criminali che assumono sempre maggiore dimensione interetnica, sembra confermare la tesi di un ricambio – voluto e/o concordato – all’interno di alcuni segmenti criminali, di un “mercato del crimine” sostanzialmente immutato nella sua dimensione quantitativa.
Del resto, le colonie di immigrati, prima ancora che un fattore criminogeno, sono spesso le prime vittime della criminalità, che impiega i connazionali in lavori “in nero” massacranti e mal pagati, li sfrutta sessualmente, li sottopone ad estorsioni e violenze di ogni tipo, impone loro la sua intermediazione su qualsiasi operazione economica (alloggio, lavoro, invio del denaro in patria, ecc.).
Alla conclusione di escludere ogni legame funzionale tra immigrazione e criminalità giunge anche un recente rapporto europeo sullo stato del processo migratorio nei paesi dell’Unione (Getting the core of immigration, febbraio 2003) condotto nell’ambito del Programma europeo di ricerca socioeconomica, laddove correttamente si rovescia l’impostazione: non è l’immigrazione che genera criminalità e disoccupazione, ma è la forte presenza di economie sommerse all’interno dei Paesi più sviluppati che incoraggia l’immigrazione. Si potrebbe partire da lì!
Vitali - Tuttavia è un dato di fatto che da più parti si paventa il rischio che, attraverso i canali dell’immigrazione illegale, aumenti il rischio di ingressi di appartenenti a organizzazioni terroristiche. Vorrei ricordare che i responsabili degli attentati dell’undici settembre non entrarono negli Stati Uniti tramite i canali dell’immigrazione illegale, ma sfruttarono un’estesa rete di protezioni all’interno del paese d’accoglienza, per svolgervi attività apparentemente insospettabili. Si trattava di uomini d’affari e studenti, che si caratterizzavano per ampie disponibilità finanziarie e per una condotta di vita assolutamente conforme agli standard americani. Un’esistenza borderline, insegnano le tecniche di intelligence, non è la migliore strategia per creare forme di copertura. Probabilmente non è alla migrazione clandestina che va dedicata la maggiore attenzione, al di là dell’applicazione di rigorose procedure di filtro alle frontiere, come dimostrano anche le prime indagini sull’attentato di Madrid. Meglio sarebbe interrogarsi sull’origine e sulla consistenza delle risorse finanziarie a disposizione di molti immigrati ‘regolari’ provenienti dalle zone calde del pianeta.
D’Ascenzo - È vero che quando si parla di criminalità in genere, e di criminalità organizzata in particolare, ogni forma di attenzione all’evolvere dei fenomeni non può e non deve essere messa in secondo piano.
Se poi gli aspetti criminali toccano la questione del terrorismo, l’attesa dell’opinione pubblica è che lo Stato sia in prima linea per combattere tutte quelle forme di contiguità che sono talvolta il sostegno primo agli atti terroristici. In questa ottica, i canali di immigrazione clandestina potrebbero essere sempre più utilizzati per muovere persone con intenti delinquenziali in una logica di “contrapposizione” (fra blocchi socio-culturali e politici differenti) che è ovviamente lontana dal concetto stesso di migrazione.
Il dibattito, in forte crescita, sul rapporto fra immigrazione e criminalità va quindi doverosamente ripensato suddividendo gli aspetti non auspicabili, ma comunque riconducibili ad una criminalità che definirei “fisiologica”, da quelli “patologici” propri della criminalità organizzata e del terrorismo. Il binomio immigrazione – criminalità, tradotto in modo semplicistico, può infatti essere portatore di giustificazioni xenofobe che mal si conciliano con l’azione di integrazione che tutti gli Stati hanno interesse a portare avanti. Se infatti è grande la tentazione, in diversificati strati della nostra società, di avvalorare il rapporto diversità = criminalità, altrettanto grande deve essere la risposta istituzionale a difesa della immigrazione “sana”.
Ma questo non vuol dire di certo abbassare la guardia proprio per quella logica di prevenzione che è alla base di ogni politica che possa veramente favorire l’immigrazione regolare.
L’auspicio dunque è che l’attuale dibattito sulla questione sia reso il più “neutro” e il più razionale possibile sia per evitare generalizzazioni a senso unico sia per rispondere in modo efficace alle attese dell’opinione pubblica in termini di vivere civile e di ordine sociale.

Particolare rilevanza assume, nel medesimo contesto immigrazione/criminalità, la regolamentazione internazionale dell’azione di contrasto, attraverso vari trattati che negli ultimi anni, a partire dalla Convenzione ONU di Palermo, hanno posto al centro la questione dei traffici connessi ai fenomeni migratori. Esistono le condizioni, a Vostro avviso, per dare maggiore impulso all’attività di cooperazione internazionale, sia sul piano preventivo che repressivo, attraverso norme cogenti che possano trovare una diretta ed efficace applicazione?

Vitali - In tema di cooperazione internazionale, il principale obiettivo del Trattato contro il crimine organizzato transnazionale firmato a Palermo da 40 nazioni e adottato nel novembre del 2000, come è noto, riguarda l’eliminazione delle differenze di trattamento per alcuni specifici illeciti penali a livello di ordinamenti giuridici nazionali, allo scopo di promuovere quegli elementi di cooperazione che tali differenze di trattamento avevano spesso impedito in passato. Il secondo obiettivo è la fissazione di alcuni requisiti standard per quanto riguarda la legislazione interna, allo scopo di assicurarne una maggiore efficacia nella repressione del crimine organizzato.
Il Trattato, ad esempio, precisa, all’art. 14, 3° comma, che allo scopo di contrastare attraverso la cooperazione internazionale il contrabbando d’armi è necessario rendere operativo un sistema unificato di tracciatura delle armi da fuoco. Tale sistema di tracciatura, secondo quanto stabilito nei precedenti due commi, deve contemplare la possibilità di condividere a livello internazionale informazioni circa i possessori di armi da fuoco che si sono resi responsabili di crimini e le modalità attraverso le quali il reato è stato materialmente commesso e, più in generale, tutti gli aspetti tecnico-scientifici riguardanti la fase delle indagini preliminari.
Più interessanti appaiono l’art. 15, che prevede la possibilità di ordine generale di stabilire specifici accordi bilaterali o regionali su temi particolari, l’art. 16, che fissa le modalità per lo scambio d’informazioni e di competenze specifiche e l’art. 18 che stabilisce le modalità per l’assistenza tecnica in sede di esecuzione del Protocollo d’intesa.
D’Amico - I due Protocolli aggiuntivi alla Convenzione ONU di Palermo (13), “contro la tratta di persone, in particolare donne e bambini”, e “contro il traffico dei migranti” ricollegano, di fatto, direttamente il problema dell’immigrazione a quello della criminalità organizzata, con un esito di sostanziale contrapposizione tra paesi di immigrazione (che non hanno problemi a ratificarli) e quelli di emigrazione (che ne hanno molti di più). Non è certo casuale che le ratifiche ai Protocolli siano quasi la metà di quelle alla convenzione madre.
Allo stesso tempo, però, i protocolli rappresentano un importante strumento, non solo e non tanto in termini di unificazione della disciplina penalistica e della cooperazione giudiziaria e di polizia (del resto con forti limitazioni alla vincolatività di molti istituti), quanto per la palese ammissione, contenuta nel preambolo del “Protocollo contro il traffico dei migranti”, dell’esigenza di un approccio internazionale globale che includa la cooperazione, lo scambio di informazioni ed altre misure adeguate, comprese misure di carattere socio-economico”, nell’ottica del rafforzamento della cooperazione internazionale nel settore dello sviluppo e migrazione internazionali al fine di affrontare le cause che sono alla base della migrazione, specialmente quelle connesse alla povertà, ed a massimizzare i vantaggi della migrazione internazionale per gli interessati”.
Anche le misure di assistenza e tutela delle vittime, previste dai Protocolli, considerano i migranti, non solo come vittime delle organizzazioni criminali, ma anche come vittime di fattori socio-economici, quali la povertà, il sottosviluppo, la mancanza di pari opportunità, la domanda di sfruttamento nei Paesi di destinazione.
Sono inoltre raccomandate misure educative, sociali e culturali per scoraggiare la domanda di sfruttamento di persone, causa della tratta.
Ancora una volta l’integrazione tra profilo anticrimine e di sicurezza, politiche di sviluppo delle aree di emigrazione e strategie di riduzione delle aree di illegalità dell’economia e dei mercati di immigrazione si delineano come la prospettiva potenzialmente più efficace, perché in grado di produrre impatti sulle leve del disagio sociale ed economico all’origine dei flussi, ovvero sulle situazioni di “offerta” che incentivano la clandestinità all’interno dei Paesi di destinazione, piuttosto che sulla fase “a valle” dell’ingresso e della permanenza illegale.
Vitali - In realtà, a ben guardare, si tratta di dichiarazioni di principio, che hanno lasciato un margine notevole per le modalità di recepimento da parte dei singoli ordinamenti giuridici nazionali. Ne consegue, al momento, un’applicazione soltanto parziale dei protocolli, con estesi spazi di mancata copertura, soprattutto per quanto concerne non soltanto l’interscambio di informazioni, ma soprattutto la creazione di un’infrastruttura tecnica di monitoraggio dei flussi migratori. Teoricamente, attraverso idonee procedure di intelligence, sarebbe oggi possibile, forse, tracciare il flusso della migrazione illegale attraverso rilevazioni satellitari. Il problema risiede nelle informazioni relative ai singoli individui. Tanto per chiarire ulteriormente il concetto, tornando all’esempio del Marocco, è uno dei pochi Paesi che non ha fornito informazioni sui tassi specifici di criminalità distinti per fattispecie criminose. A maggior ragione possiamo ragionevolmente dubitare sulla cooperazione di quel paese riguardo alle informazioni individuali relative al singolo immigrato. Prova ne sia che, per la maggior parte dei clandestini ospitati nei centri d’accoglienza risulta oltre modo arduo non soltanto ricostruirne i trascorsi penali, ma addirittura la stessa identità. C’è naturalmente da augurarsi che i recenti cambiamenti nella guida di molti paesi nordafricani, tanto per rimanere in quell’area, portino a cambiamenti di rotta anche su tale delicata materia. Con moderato ottimismo si potrebbe anche osservare che la recente volontà espressa da Marocco e Tunisia di presentare la propria candidatura all’Unione Europea potrebbe rappresentare una splendida occasione per riorganizzare, su nuove basi, la cooperazione internazionale per la repressione del crimine organizzato transnazionale. Tali considerazioni, naturalmente, si estendono all’Albania, alla Turchia e a tutti gli altri paesi attraverso i quali passano i flussi migratori. L’unica forma efficace di controllo, a mio avviso, è costituita da un sistema ampio e articolato di ‘filtri’, collocati non soltanto nei Paesi d’origine e di destinazione dei flussi, ma anche in tutti gli eventuali Paesi intermedi. È per questo che, come dicevamo in precedenza, vanno sfruttate al massimo grado le opportunità offerte dagli accordi bilaterali ex art. 15 del Trattato di Palermo.
D’Ascenzo - La questione del traffico di esseri umani è da tempo sempre più all’attenzione dei governi europei soprattutto perché essendo legata ai fenomeni migratori determina quegli squilibri a cui precedentemente ho fatto riferimento.
E se è vero che tutte le attività di cooperazione allo sviluppo possono essere il vero motore per contenere tali diseguaglianze ancor più vero è che un’attenta cooperazione internazionale in materia di contrasto di tale fenomeno appare la doverosa strada da percorrere con sinergie di azioni preventive e di reazioni repressive.
Il recente sforzo compiuto dall’Italia durante la recente Presidenza dell’Unione europea in favore di una gestione coordinata delle frontiere esterne e di una maggiore omogeneità nelle azioni di contrasto in mare è sintomatico di una chiara indicazione politica che andrà, con sempre più incisività, perseguita.
In questa ottica ogni “patto” fra gli Stati è ovviamente bene accetto perché la “globalizzazione” della criminalità organizzata richiede un altrettanto ampia capacità degli Stati per una azione di contrasto che sia veramente il risultato di una reale cooperazione internazionale.
In conclusione, senza entrare nello specifico dibattito tecnico sulle modalità di questa cooperazione, è importante comprendere che più saremo capaci di tenere disgiunto il binomio criminalità – immigrazione più le politiche positive che questo fenomeno richiede potranno essere vissute dalla nostra società civile e da tutti noi come un motore di sviluppo e di solidarietà allargata in antitesi a chi ha interesse a lucrare sulla disperazione di molti.
D’Amico - Su un piano più generale, potremmo dire che in un pianeta in cui i migranti sono 175 milioni (OIM Rapporto mondiale sulle migrazioni, Roma, luglio 2003), in ogni circostanza la scelta della azioni di carattere preventivo e repressivo ( rectius il loro mix) deve sempre operare una ponderazione tra i “beni ultimi” che si vuole tutelare, che sono implicitamente contrastanti, ossia il governo dei flussi a beneficio dello sviluppo e della sicurezza dell’Europa e la speranza di una vita migliore nutrita dalla maggior parte degli emigranti.
Di Tora - Certamente ogni nuova convenzione internazionale che entra in applicazione è un fatto da celebrare con grande entusiasmo perché rappresenta la vittoria condivisa del diritto, in quanto coinvolge più nazioni. Senz’altro esistono le condizioni per incentivare le attività di cooperazione internazionale anche attraverso norme più severe. So che da parte italiana si è molto attenti a queste prospettive e che si dà un contributo di qualità nei diversi incontri. Penso che tutto ciò vada sostenuto con convinzione ma che non basti perché, come già ho avuto modo di osservare, la repressione non è l’unica leva che consentirà di regolare la politica migratoria. Servono, oltre alle previsioni coattive, anche norme incentivanti che mostrino come la via della legalità sia percorribile e maggiormente gratificante. Per quanto riguarda questi aspetti la nostra valutazione non è così positiva. La Convenzione ONU sui diritti dei migranti e, in particolare, i Protocolli aggiuntivi – come è stato ben sottolineato dal dott. D’Amico - non sono stati ratificati da tutti i paesi partecipanti.
Politica significa visione d’insieme: quando si parla di criminalità, prevenzione e legalità rispetto all’immigrazione si dimentica spesso l’altra faccia della medaglia, cioè quella dei diritti.



(1) Il progetto, finanziato dai Fondi strutturali europei per lo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia, prevede lo sviluppo di una serie di prodotti editoriali, multimediali e di comunicazione televisiva, con il duplice intento: di favorire l’integrazione e la socializzazione degli immigrati e di sensibilizzare i cittadini per la creazione di una nuova coscienza multirazziale. È compresa nel progetto una serie di kit informativi in più lingue che affrontano, in modo semplice e diretto, tematiche come il sistema legislativo italiano, il mondo del lavoro, il funzionamento delle istituzioni e le caratteristiche della nostra cultura (confronta il sito del Programma Operativo “Sicurezza per lo Sviluppo del Mezzogiorno d’Italia”, www.sicurezzasud.it).
(2) Secondo una ricerca del sociologo Ilvo Diamanti presentata al CNEL nell’ottobre 2003.
(3) CENSIS, 37° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, tabella 11, pag. 649.
(4) Dati tratti dal rapporto annuale ISTAT 2003.
(5) Secondo uno studio dell’UREF (Istituto di Ricerche Educative e Formative), nel 2001, il 53,6% degli intervistati ritiene che la gestione dei fenomeni legati all’immigrazione vada affrontata dai Ministeri dell’Interno e della Difesa mentre solo l’1,4% assegna un ruolo al volontariato.
(6) Pag 18. Il testo è disponibile anche sul sito di Europol www.europol.eu.int
(7) Come difendere le nostre frontiere nell’Europa a 25, su LIMES - Italia stile libero, 5/2002.
(8) Boeri e Brucker, 2000, parte A, par. 7.3, pag. 111.
(9) Documento COM (2004)101.
(10) Tramite il Programma Operativo Nazionale “Sicurezza per lo Sviluppo del Mezzogiorno d’Italia” nell’ambito del Quadro Comunitario di Sostegno per le Regioni dell’obiettivo 1 e attraverso le Iniziative comunitarie di cooperazione interregionale (INTERREG II e III).
(11) Cfr. Il controllo dei traffici migratori illeciti nel mare mediterraneo, edito da Scuola Superiore Economia e Finanze e Centro Studi Geopolitica Economica, Roma, ottobre 2003.
(12) O. VITALI, Migrazioni e criminalità: un’analisi di scenario, Per Aspera ad Veritatem, n.23/maggio-agosto 2002.
(13) Come è noto la Convenzione ed i Protocolli diverranno operativi solo dopo la ratifica da parte di 40 Paesi.

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